Storia della Chiesa Parrocchiale dei SS. Gervasio e Protasio

Le vicende della fabbrica della nuova Chiesa Arcipresbiterale

 

“Qui a Trescore abbiamo un Architetto di grande giudizio, ed attività, capace di prender impegni, e di riuscirne con onore. Questi è Mastro Proino conosciuto ancor costì per un uomo eccellente, quale avrebbe a sommo onore il poter servire la Communità di Bariano con dar anch’egli il suo disegno della Chiesa”.

E’ questo il primo disegno che ci parla dell’intenzione della comunità parrocchiale di provvedere alla costruzione; era il 22 dicembre 1741.

La lettera proveniente da Trescore era scritta da Don Francesco Giuseppe Vitalba; il Nobile e giovane sacerdote, che alcuni anni più tardi sostituirà il vecchio zio nella guida parrocchiale della nostra comunità, scriveva al Nobile Abate Gio. Batta Grataroli.

L’Abate aveva la funzione di vero e proprio committente, in quanto godeva i diritti di uno juspatronato non giuridico, bensì morale, che gli proveniva dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua grande esperienza e saggezza, dal suo amore per la nostra terra, e, certo non ultima, dalla sua generosità verso i bisogni della gente e delle Chiese di Bariano.

A lui si dovevano indirizzare richieste, desideri e progetti; solo lui poteva autorizzare.

Né mai nessuno avrebbe avuto l’ardire morale di sostituirlo in qualche decisione, anche di aspetto secondario.

Perciò si giustifica questa meravigliosa documentazione che può illuminarci non solo sulla storia del nostro borgo, bensì sulle vicende misteriose di tante chiese delle nostre terre, sorte in condizioni analoghe, nello stesso periodo storico.

In quegli anni era in atto un grande fervore di rinnovamento non solo delle chiese ma anche dei grandi edifici delle famiglie illustri.

E’ un grande periodo storico, che ha, sì, spesso distrutto testimonianze più antiche, ma che ci ha lasciato in sostituzione altrettanto grandi esempi d’arte, non ancora sufficientemente valutati, avendo dovuto subire il vaglio negativo del pensiero critico ottocentesco e successivamente di quello moderno.

Il fervore di questo rinnovamento era sotteso da grandi intuizioni filosofiche, che possiamo certo indicare quale preavvertimento della immensa rivoluzione di pensiero che porterà, un secolo più tardi, all’inizio dell’era moderna.

In campo architettonico, nella nostra provincia era importante la grande tradizione delle famiglie artistiche; dai Canaina ad esempio, che erano riusciti ad imporre nelle chiese un modello tipologico ad unica navata con cappelle laterali, cui era possibile apportare infinite varianti, secondo i canoni di quel vivace periodo artistico che caratterizza il barocchetto settecentesco.

Non stupisce quindi che alla nostra chiesa sia stato dato uno schema di quella tipologia, pur potendo affermare l’assoluta estraneità dei Canina dalla sua progettazione.

Ma torniamo alle vicende della nostra Fabbrica; pur in assenza di un progetto le opere esterne già fervevano.

Al 14 gennaio 1742 si era già entrati in una fase esecutiva; “Dall’illmo Sig. Can. Martinoni si ha il permesso di levar da questo suo chiericato discreta quantità di roveri per la Fabbrica”.

In questa fase iniziale ci si preoccupava infatti di procurare il legname per i ponteggi o per le strutture; i roveri erano utilizzati quale rinforzo interno alle murature (tiranti, corree, pilastri, sempre annegati all’interno della muratura, né mai utilizzati in vista), oppure predisposti a stagionare per le strutture portanti del tetto.

La lettera continua sul nostro argomento: “Quivi la falce della morte ci hà fatto un maltaglio cioè del povero Antonio Vanghetti, uno dei migliori operaij: Iustus es, Domine, et rectum iudicium tuum”.

Giusto sei o Signore, e retto è il tuo giudizio; Antonio Vanghetti stava lavorando alle opere preliminari, all’espurgo delle sepolture, prima dell’inizio vero delle opere architettoniche.

I resti delle sepolture furono portate altrove, in un ossario comune, accanto alla chiesa dell’Annunciata; in questa chiesa furono poi sepolti i morti per tutto il periodo di costruzione della nuova chiesa.

Era già in quel primo periodo dell’anno in corso la raccolta di fondi per le necessità della Fabbrica.

L’Abate Grataroli aveva organizzato tutto un programma di offerte e di lavoro gratuito. I proprietari terrieri offrivano il lino grezzo, che poi le donne della parrocchia provvedevano a lavorare ed a filare, insieme con la “stoppa” che serviva per tessere i sacchi.

Quando il filo era pronto, si provvedeva a spedirlo a Bergamo, all’Abate che lo utilizzava direttamente nel suo filatoio.

Si mandano lì due sacchi di filo, cioè lino Pesi 11 Stoppa P. 2 l’una e l’altra netti di tara e così dell’una come dell’altra ne resta ancor farvi qualche poco, che si procurarà di mandare, quando le donne averanno finito di portarlo”.

La filatura gratuita proseguirà poi per alcuni decenni, fino alla completa estinzione dei debiti. L’inverno molto nevoso, aveva rallentato anche le opere preliminari, ed ammorbidito i contrasti di opinione tra i parrocchiani.

Questa buona invernata poi ha smaltito parmi senza contrasto di opinioni il pensiero di cominciar questa primavera la fabbrica, spiacendomi ben molto il passaggio di tante giornate nel nulla”.

Per il progetto della chiesa erano stati interpellati un architetto di Crema ed uno di Tagliuno.

Veniamo pertanto a conoscenza che era stato sollecitato un informale concorso di idee, delle quali sarebbe stato scelto il nome del progettista definitivo.

In realtà in quell’epoca esistevano due tipi di progettisti; l’architetto che esercitava la professione, generalmente unendola ad altra professione d’arte, scultura, pittura, intaglio.

Erano gli architetti colti, che a volte appartenevano a nobili famiglie; erano tuttavia assai pochi.

Ben più numerosi erano invece i Mastri Architetti, i quali avevano imparato la professione direttamente sui cantieri, dapprima come manovali e muratori, per poi divenire Mastri ed Architetti.

Essi continuavano ad esercitare la professioni sui cantieri, assumendo in proprio a volte non solo la direzione dei lavori, ma anche l’appalto stesso delle opere o di alcune opere, e la progettazione vera e propria.

Non è invero raro il caso di trovare Mastri a condurre opere di Architetti, come potremo constatare anche nel nostro caso. In questa prima fase erano stati interpellati dunque tre progettisti: Mastro Proino o Provino di Trescore, Mastro Pagano di Tagliuno ed un Protomastro, ossia Architetto di Crema, di cui non ci è dato di conoscere il nome.

Il periodo invernale era adattissimo per tagliare gli alberi; anzitutto perché i contadini erano liberi dai lavori nei campi, ma anche perché gli alberi non erano in vigore ed erano privi di foglie, ed inoltre i campi erano calpestabili senza recare danno alle culture. Ecco pertanto la relazione di dette operazioni: “Nelle due feste abbiamo condotto a casa li soi legnami, et anche abbiamo tagliati quelle rovere al fondo della villa del Ven. Mia quali donati alla fabbrica, e queste condotti a casa. Dom.ca pure tagliassimo anche quelle del nostro fattore che sono in n° 5 quali farà dieci carra, del quale non aspettano tanto”.

Ai primi di marzo erano stati già consegnati i primi progetti con evidente soddisfazione dell’arciprete, che dimostrava un maggior gradimento verso quello di un non ben precisato Mastro Domenico.

Alcuni giorni più tardi, un altro disegno era stato consegnato a Bergamo direttamente all’Abate Grataroli: “Mi vien detto dal Pandino che il disegno fatto da Mastro Provino sia assai bello Harei caro che a lui toccasse la sorte di metterlo in opera”.

Ma questo desiderio dell’arciprete non si avvererà.

Il 19 marzo 1742 i lavori erano già iniziati: “… in questi principij della fabbrica, li quali sono molto ardui anche per il doversi con orrore sprofondare a cavarne monti di ossi, che si conducono altrove. Questa povera gente (benché non senza i suoi lamenti) si affatica quanto può per l’incentivo specialmente in privato ed in pubblico, messogli su la speranza che daranno buoni aiuti li Sig.ri Benestanti col piacimento ed a decoro de quali si intraprende. Ed già è noto quanto sa V.S. Ill.ma promesso, come anche dalla casa dell’arciprete benché non abbia quivi un palmo di terra permanente”.

Dunque gli aiuti maggiori in questa prima fase delle opere, provenivano dai Grataroli in primo luogo, ma anche dai Vitalba di Trescore. In quei giorni forse era stata fatta la scelta definitiva del progetto, in quanto questo argomento non compare ormai più nella corrispondenza.

Ma non abbiamo elementi che ci possano dare lumi sulla persona. Fu forse scelto il progetto di Mastro Antonio Ganalli di Brignano, così come afferma Mons. L. Pagnoni; ma questo nome non compare mai nella documentazione dell’Archivio Grataroli.

Ad agosto la fornace produceva a pieno ritmo; “devo avvisarle essersi per necessità di legna abbruggiati nella
Fornace què bastoni che si destinavano alla vendita; dicono anche per che essendo ormai del tutto inariditi dal sole erano di pochissimo peso ed però non tornava à conto il cercare di venderli. Per altro la fornacciata è sin ora andata bene, e dimani sera, penso, si chiuderanno le divoratrici bocche”.

Durante tutto il successivo inverno 1743 la comunità rimase impegnata per la fabbrica: le donne per la filatura del lino e della stoppa, i contadini a raccoglier legna nel Serio, o nel bosco che la chiesa aveva acquistato in quel di Masano, gli uomini di fatica a cavar terra per la fornace, che veniva ammassata in grandi mucchi all’aperto perché fiorisse col gelo di quel gran freddo.

Le strade che si usavano per cavar sabbia, per trasportar legna, terra o mattoni dovevano essere continuamente mantenute efficienti, affinché i massari accettassero di far eseguire i trasporti in cambio di alcune lenzuola, che si acquistavano a Romano nella bottega Frosio Roncalli, in cambio di alcuni pesi del filo di lino prodotto dalle donne nelle case del borgo.

A metà marzo si erano verificate impreviste difficoltà che avevano messo in notevole apprensione il notevole arciprete; “subito ricevuto il  pregiatissimo suo foglio, ne ho partecipato il tenore al sig. Oratio Rivola, il quale ha stimato conveniente che si avvisi subito il capo mastro di Pumenengo, acciò venga, se può senza dilatione con li suoi uomini, avanti che qui sia chiuso il passo”.

Il capo mastro doveva certo porre rimedio agli inconvenienti provocati dalla imperizia degli operai volontari che si erano fino a quel momento utilizzati; ma anche la direzione tecnica aveva procurato molti pensieri all’arciprete, che nella stessa lettera avanza timidamente il desiderio di “valersi dell’opera di Mastro Provino”, suo compaesano.

A maggio la necessità di legname aveva impegnato il fratello dell’arciprete a rivolgersi ancora ai deputati della
Misericordia Maggiore, che avevano concesso ancora cinque piante di rovere. Fino a quel momento la vecchia chiesa era stata salvata per consentire le funzioni quotidiane, ma la fabbrica della nuova chiesa interessava anche quell’area.

Gli inconvenienti lamentati a marzo erano infatti riferibili alla vecchia chiesa cui gli scavi adiacenti, in quel periodo di grandi piogge, non poteva certo aver giovato.

Ormai le opere erano state affidate definitivamente a due capo mastri, che utilizzavano prevalentemente manovalanza volontaria locale, ed i materiali forniti in luogo. La vecchia chiesa era talmente puntellata, in quanto si dovevano eseguire le sottofondazioni;“S’è cominciato hoggi a fare li fondamento sotto la facciata della Chiesa vecchia e dalla ventura settimana si cominciarà, come penso, a scavare più a dentro: ma si ha scarsezza di paloni, così che bisogna talora che li mastri per tal causa stiano a bada”.

Né possiamo escludere che una parte della vecchia chiesa, come era consuetudine, sia ancora inglobata entro le strutture dell’attuale, in attesa che qualcuno la riscopra.

Il giorno successivo tuttavia le preoccupazioni dell’anziano arciprete erano ancor più gravi, al punto da chiedere all’Abate l’autorizzazione a sospendere i lavori fino a S. Anna, in attesa che comunque il Grataroli potesse controllare di persona la situazione di Bariano.

Alla fine dell’anno si era dato inizio alla struttura della facciata della chiesa, ma i risultati iniziali sono poco soddisfacenti; “quanto al mal principio della facciata di questa chiesa non coerente al disegno del Sig. Alessandri, bisognava però che questo Sig.re non dasse al Capo Mastro (così più volte esso qui si espresse) la libertà di arbitrare nella facciata di farla come voleva”.

Ecco finalmente svelato il nome del progettista che fino a questo momento era rimasto avvolto nel mistero.

E’ l’architetto Filippo Alessandri di Bergamo, della nobile famiglia dei Conti Alessandri la quale aveva la propria residenza in piazza S. Tommaso, dove attualmente sorge l’Accademia Carrara.

Il collegamento è certo facile; il Grataroli e gli Alessandri abitavano nella stessa contrada ed erano certo legati da vincoli di conoscenza, se non di amicizia. Due, s’è già detto erano i Mastri che avevano la responsabilità delle opere, e già in questa prima fase avevano rivelato notevoli autonomie decisionali, come abbiamo potuto considerare nella lettera precedente; per la verità mancava la direzione dell’Architetto, la cui presenza essi invocavano, insieme con quella dell’Abate.

L’inverno, come si è detto, era la stagione più favorevole per predisporre mezzi e materiali; nell’inverno dell’anno 1744 le preoccupazioni in questo senso si accentuarono notevolmente.

Le donne erano in ritardo con la consegna del filato, che l’Abate sollecitava per approfittare degli aumenti previsti. Ma era ormai tempo di predisporre anche le travi principali del tetto; il Monastero Femminile di Caravaggio aveva purtroppo rifiutato “una bella rovere che hanno alla Brusata”, per cui era forse necessario sollecitare a Bergamo, alla Misericordia Maggiore il dono di due roveri, in sostituzione della solita legna per la fornace, che il Venerando Ente era solito donare. A Bergamo nel frattempo erano pronti “gli pargoli (abeti) da lei scielti n° circa 40, che potevano essere trasportati con tre carri; erano inoltre urgenti circa quaranta pietre per la scala che si stava costruendo “in un dè piloni”.

I compiti dei Mastri andavano ben oltre l’appalto e direzione effettiva dei lavori, essi erano responsabili della richiesta e delle misure dei materiali, cui, come s’è detto, provvedeva il Grataroli, ma anche dei disegni esecutivi delle varie opere; si manda pure il disegno della principiata facciata, conforme è stata lineata da Mastri stati quivi”.

Il nostro nobile Abate sottoponeva poi ogni cosa all’Architetto Alessandri, per una eventuale correzione. E correzione evidentemente l’Architetto l’aveva voluta per i materiali di facciata; egli chiedeva che le parti più importanti fossero realizzate in pietra di Sarnico, per le quali si prevedeva la spesa di L. 300 oltre al “viatico alla gente, che anderà a prenderlo”.

L’incarico era stato affidato ad Antonio Feltri Tagliapietre di Sarnico, ma i nostri buoni progenitori non erano d’accordo.

Quando anche questa facciata si facci di buoni quadrelli ben cotti, come le abbiamo, ogni uno dice, che accompagnerà meglio e starà più soda, essendo soliti col tempo li sassi di Sarnico a sfarinarsi”.

Pochi giorni più tardi don Francesco Maria riprende con più insistenza l’argomento: “Non s’adiri per carità V.S. Ill.ma, se ritiro la penna per certionarla della comune contrarietà cerca le pietre, delle quali poc’anzi già le ho scritto”.

Le sue argomentazioni sono certo di ordine pratico ed economico, ma di logica stringente e diremmo convincente; l’unica possibilità era in effetti quella che “qualche privato” si assumesse la rilevante spesa, il che non era in alcun modo pensabile. “L’istesso scanso di spesa soverchia si ha preso in mira anche per le due colonne. Un di questi Mastri s’impegna in due giornate di tagliar ed adattar per colonna di questi quadrelli, che tanti vi sono, e schivar la farcitura di 450 a posta stampati, che non costeranno meno di 10 soldi l’uno”; nel progetto originale infatti erano previste due colonne in mattoni a spicchi circolari, da stampare appositamente e da intonacare. La lettera lascia intuire ben chiaramente che la decisione era già presa, indipendentemente dal parere dell’Abate e dell’Architetto; “e sperano che tanto lei come il sig. Alessandri non s’offenderanno, se in ciò si scostano alquanto dal loro detto”!

In effetti la facciata attuale non solo è priva di rivestimenti in pietra, ma è priva anche delle colonne previste in progetto. Questa presa di posizione procurerà al sacerdote, due anni più tardi, l’impossibilità di accedere al titolo di arciprete, allorché il vecchio Don Antonio deciderà di abbandonare l’incarico. L’Abate che aveva evidenti ed importanti appoggi in Curia, tramite i nobili prelati, preferirà infatti la candidatura del giovane nipote che aveva dimostrato di essere più ossequiente alla sua volontà. Ai primi di aprile la facciata già si stava innalzando secondo quanto si era deciso; occorrevano chiodi e numerosi altri ferri, “legamenti, cambre e stanghette alle travi che servono di chiave à collegar li muri”. S’è già avuto modo infatti di descrivere come fosse buona tecnica muraria quella di inserire orizzontalmente nelle murature travi di rovere con funzioni di chiave di legamento, in sostituzione delle più efficaci ma troppo costose chiavi in ferro.

Ad agosto si era ormai giunti al grande cornicione per cui servivano pietre in gran quantità che ci si preoccupava di acquistare in quel di Bergamo e di “Monticello”.

Si giunge così ben presto all’inverno 1745 e ricominciarono le preoccupazioni per l’approvvigionamento dei materiali per l’anno successivo. Necessitavano ancora grandi quantità di legname, di travi di rovere anzitutto; “Una rovere” era stata promessa da Donato Lupi, ed altre due dai Conti Albani ed altre si sperava di ottenerne dalla Veneranda Misericordia Maggiore, ma si aspettava di abbatterle “sin al fine della andante Luna”, affinché il legname non si rovinasse presto per il tarlo. I nostri bravi antenati avevano messo gli occhi su sette roveri della cascina Belvedere, di proprietà della Mensa Episcopale di Cremona; ma “non stabilimmo il mercato avendomi il Valdemaro dimandati dieci zecchini, ed avendogliene io presentato otto”. A questo punto la documentazione epistolare dell’archivio presenta una lacuna relativa a tutto l’anno 1745 e a quasi tutto il 1746, con grave disappunto nostro e pensiamo anche dei nostri lettori.

Il vuoto di notizie è interrotto da una lettera-contratto del 17 febbraio 1746, stilata da “Antonio Donino detto Bondur Picha Pietra della valle di Stino”, il quale si impegnava a predisporre una notevole quantità di pietre, comprendenti lastre, capitelli, gradini, al prezzo di L. 345 e soldi 3, da consegnare fuori della porta di Cologno della città di Bergamo. La valle di Astino è la bellissima valle ad occidente della città, dove si cavava una pietra arenaria gialla molto bella. La fornitura fu pagata il 28 Agosto 1746 e si deve supporre a quella data tutto il materiale era stato regolarmente consegnato. La documentazione riprende dal mese di dicembre dell’anno 1746 con una grossa novità; chi scrive infatti non è più don Francesco Maria Vitalba, bensì il nuovo arciprete, il suo giovane nipote don Francesco Giuseppe. Ma leggeremo altrove queste vicende.

In quei giorni invernali, si provvedeva, come era ormai consuetudine, a predisporre i mezzi ed i materiali per la fabbrica. Le donne filavano a pieno ritmo; “queste donne parmi che siano inferovarate, e però se V.S. Ill.ma avesse la congiuntura di provederne dell’altro, sarà ben fatto per non lasciarle otiose”. Gli uomini erano impegnatissimi a tagliar legna, nelle boschine del Serio, per la fornace. E già si pensava alle chiavi in ferro per sostenere la volta, la cui costruzione era prevista per il 1747. Nel frattempo a Bariano erano giunti i primi “travelli” in legno che si stavano predisponendo per il tetto, e si raccoglievano offerte di lino.

”Li signori Marchesi Terzi hanno dato alla fabbrica lino pesi 3, lire 9 in cerca, che si è già dispensato alle donne nelle sue filande”. Servivano ancora molte pietre ed il tagliapietre Lorenzo Zerbini di Montesello era disponibile per la fornitura a buon prezzo. Nei giorni successivi il contratto fu concluso positivamente. Fu interpellato anche il proprietario del “grosso maglio di Zandobbio, quale ha servito le chiese di questi contorni ed anche di Rumano”. Era Giorgio Cometti , il quale avrebbe dovuto predisporre le grandi chiavi in ferro per la costruzione delle volte della navata e dell’abside. A primavera i lavori ripresero ben presto, con la prospettiva di vedere finalmente coperta la grande fabbrica, dopo cinque lunghi anni di lavoro e di sacrifici. Prima di iniziare la costruzione delle volte si pensava di coprire l’edificio con il tetto in legno; il legname grosso era pronto già da tempo, come pure il legname minuto. Uno dei Mastri venne a Bergamo per prendere gli accordi con l’Architetto Alessandri, che seguiva le opere da lontano. Sì decise così diusare come legname minuto “delle codeghe”, cioè le parti superficiali del taglio dell’assito, le meno pregiate, riservando le catinelle già pronte “per armare il volto, che a Dio piacendo si farà un altr’anno”. Veniamo così a conoscenza anche del nome di due Mastri: erano i fratelli Speranza e Battista Contini.

Ma sorgono proprio a questo punto inattese e gravi difficoltà; dopo anni di latitanza nella direzione dei lavori, l’Architetto Alessandri inviò a Bariano un Mastro di propria fiducia, Leonardo Bossi. Questi prese nota di diversi errori nella costruzione, con difformità importanti rispetto al progetto originale. L’Architetto prese posizione precisa e chiese all’Abate Grataroli che errori e difformità fossero “regolate a norma del disegno”. Gli errori segnalati sono di ordine statico, cioè errato posizionamento dei fori per le chiavi, mancanza di innesti per la formazione della “tazza a vela”; oppure di ordine estetico, quali la mancanza di spazio per il piedritto della volta, errato posizionamento delle finestre, ed eccessiva sporgenza della cornice. Gli errori secondo l’Architetto, potevano essere “tutti sanati mediante l’assistenza di alcuno ben pratico quale assistente”. Il Nobile Abate, accettando le motivazioni dell’Architetto, deliberò l’allontanamento dei due fratelli Mastri Contini; l’arciprete provvide a sospendere i lavori, al fine di poter, con più senno, adottare le posizioni necessarie. Al fine di sbloccare una situazione obiettivamente pesante e negativa, l’Arciprete considerò la possibilità di una intermediazione da parte di altri Mastri, ad esempio di Ambrogio Botani “o Luchini abitante in Borgo Palazzo per la valutazione delli supposti errori”. Egli tuttavia dovette ancora rivolgersi a Mastro Leonardo Bossi, che potè incontrare a Romano, dove egli aveva presubilmente un cantiere in corso. La situazione era preoccupante per l’Arciprete, in quanto la popolazione non vedeva di buon occhio la sospensione dei lavori e la possibilità di ulteriori aggravi di spese per rifare il malfatto. Da Trescore giunse anche lo zio don Francesco Maria, che si assunse l’incarico di alleviare le responsabilità del giovane ed ancora inesperto nipote. Egli chiese immediatamente l’intervento mediativo di “Mastri di buon umore per accomodarli all’umor di questa gente”; con estrema leggerezza egli avanzò anche l’ipotesi di sospendere a tempo indeterminato la costruzione della tazza per la quale era prevista una spesa di 100 filippi. La perizia dei Mastri Leonardo Bossi e Domenico Bettani riuscì comunque a sbloccare la situazione; al 3 settembre l’arciprete potè finalmente annunciare buone nuove “Qui per cagione delle novità occorrenti si sono levati molti sussurri in questo popolo. Sembra però, che si vadano scemando a poco a poco. E se altro non occorre, domani si darà principio all’opera”.

Ma non appena i lavori ripresero, si scoprirono altri “notabili errori anche nella pianta” e nelle lesene; era impossibile ricondurre il tutto al disegno, “né quasi né anco all’ingresso”. L’Arciprete quindi chiedeva urgentemente la visita dell’Architetto “avanti d’andar in villa, ò pure che doni la libertà al Capomastro di operare come gli parrà meglio, ò come potrà secondo le presenti circostanze”.

Qui interviene, purtroppo, una nuova interruzione dei documenti d’archivio, che ci impedisce di definire nei dettagli le vicende. Si giunge così all’inverno 1748; proseguiva a buon ritmo la filatura del lino e della stoppa per reperire i fondi necessari per i lavori della successiva stagione. A primavera iniziò la costruzione delle volte interne della chiesa, mentre si ricercava per tutto il territorio la “generosa … pietà” di legna di qualunque tipo per una nuova indispensabile “fornacciata”.

Ad Agosto si era affrontata anche “la seconda pontata”, cioè molto probabilmente la tazza a vela; ma i debiti stavano impressionando ormai i parrocchiani. Si pensava di iniziare anche la costruzione della volta sopra il presbiterio ed il coro, ma serviva una chiave in ferro che “Gregorio Cumetti di Zandobbio… non vole saper altro di chiave, sinchè non venga intieramente pagato per le altre”. Le opere proseguirono certamente, nonostante le difficoltà economiche, ma la documentazione d’archivio è ancora una volta incompleta per più di un anno. Nel mese di Settembre 1748 si era giunti alla necessità di provvedere per le finestre; in nostro Abate aveva già preso impegni con certo “Giovine Maragone”, ma l’Arciprete era più propenso ad assegnare “il travalio di Giuseppe Puretti di Romano in compagnia di Francesco Pandino”; quest’ultimo era di Bariano ed aveva grandi necessità di lavorare, anche se non era falegname specializzato.

Alcuni giorni più tardi l’Arciprete spedì a Bergamo la  nota delle misure de legname occorrente, predisposta dal falegname Puretti. Durante l’inverno 1749, con grande soddisfazione di tutti, la comunità parrocchiale rimase pressoché libera da impegni pressanti di preparazione di materiali, ad eccezione di modeste quantità di sabbia e calcina. Le donne al contrario furono molto impegnate, com’era ormai consuetudine, per la filatura del lino e della stoppa, che dava alti redditi indispensabili per coprire i grossi debiti e per predisporre le opere di finitura. La documentazione d’archivio tuttavia si conclude a questo punto, con un vuoto di 10 lunghi anni. Ormai ne sappiamo
abbastanza su questa travagliatissima Fabbrica, che per quasi 10 anni ha fatto dormire sonno assai grami ai nostri progenitori. Essa, sappiamo da altre fonti, fu completata nel 1750, anche se le opere di finitura, abbellimento ed arricchimento, continuarono ancora per decenni.

Bibliografia:

Cenni dal volume “BARIANO: PROFILO STORICO”  – Testi e fotografie di Bruno Cassinelli, Antonio Maltempi, Mario Pozzoni –  Cassa rurale ed artigiana di Bariano (c) 1986